Arcimboldo. Il carattere burlesco di una mostra.
Arcimboldo. Il carattere burlesco di una mostra.
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Giuseppe Arcimboldo
L’Ortolano (Priapo) / Ciotola di verdure 1590-1593 circa Olio su tavola / 35,8x24,2 cm Cremona, Museo Civico “Ala Ponzone” |
Solo di recente
è apparso chiaro
che le teste fantastiche di Arcimboldo si basano su studi della natura condotti
in modo del tutto oggettivo, nel contesto della nuova disciplina delle scienze
naturali. Ciò significa che la “visione icastica” di cui parla Comanini,
cioè la
rappresentazione del mondo reale in Arcimboldo, che condensa la ricerca
individuale e specifica di ogni singolo oggetto per meglio definirlo e
classificarne la specie all’interno del mondo vegetale o animale, era originale
al pari del suo metodo compositivo e “fantastico”.
Questa
raffigurazione che imita la natura crea un effetto divertente, tanto da
affascinare lo spettatore, suscitando in lui una sorta piacere intellettuale.
Con il suo spirito e la sua ironia, il gioco arcimboldiano costituì una fonte
d’ispirazione per la creazione di altri generi, come ad esempio la caricatura.
La mostra di Roma dedicata ad Arcimboldo (20 ottobre 2017-11 febbraio 2018),
articolata in sei sezioni, esordisce con l’Autoritratto di Arcimboldo come
testa composta da carte e alcuni scritti che gli furono dedicati da letterati
suoi contemporanei.
Nel 1587,
tornato a Milano dalla corte praghese di Rodolfo II, Giuseppe Arcimboldo disegnò un
autoritratto componendo la propria testa con rotoli e fogli di carta sovrapposti.
La carta è fisicamente il mezzo che serve a trasmettere l’arte
del disegno, inoltre l’esistenza di poesie dedicate alle sue creazioni e
siglate “G.A.” suggerisce che Arcimboldo intendesse comunicare il suo desiderio
di essere considerato anche poeta e filosofo. Sul colletto c’è la data del
dipinto, e la sua età (61) è mimetizzata
tra le rughe della fronte. I rotoli e i fogli di carta sono lasciati
intenzionalmente vuoti in attesa di essere riempiti di parole di lode per la
sua fama. Possiamo già capire quale fosse l’entità dell’ego di
questo personaggio avente una personalità complessa,
costruita sulle doti dell’inventiva, dell’umorismo, dell’acume filosofico e
soprattutto dell’amore per il paradossale e il contraddittorio.
Consapevole del
fatto che le parole potevano procurare più fama delle
opere d’arte, in particolare di quelle eseguite all’estero, Arcimboldo affidò a questi tre
uomini il compito di produrre scritti in sua lode e proprio a loro dobbiamo
tutto quel che oggi conosciamo sulle sue imprese: l’artista e teorico dell’arte
Giovanni Paolo Lomazzo, lo storico milanese Paolo Morigia e l’umanista Gregorio
Comanini.
Nessuno dei tre
amici umanisti racconta molto della carriera artistica di Arcimboldo prima
della sua partenza da Milano e per scoprire qualcosa di più dobbiamo
rivolgerci alle fonti documentarie. Arcimboldo e suo padre erano
tradizionalmente legati alla nobile famiglia degli Arcimboldi di Milano, che
vantava esponenti con alte cariche e un certo numero di vescovi della città.
Sembra che Arcimboldo non solo abbia convinto Morigia che le sue nobili origini
derivassero da un ramo molto più antico degli Arcimboldi risalente no a Carlo
Magno, ma ne avesse persuaso persino gli imperatori, al punto che nel 1580 Rodolfo
II riconfermò la sua nobiltà e nel 1592 gli conferì anche il titolo di conte
palatino. Solo di recente è stato fatto notare che gli antenati di Arcimboldo
per molte generazioni avevano lavorato come pittori nei piccoli borghi
lombardi, anche se, a giudicare dal nobile contegno di Biagio Arcimboldo, padre
di Giuseppe, nel ritratto di Bernardino Luini, possiamo ben supporre che egli
si sentisse nobilitato per il suo nome, se non per il suo mestiere, l’arte
della pittura. L’autoritratto in cui Giuseppe appare di fronte ed è più
giovane del già citato “uomo di lettere” rivela un’analoga pretesa di nobiltà d’aspetto nei
contorni elegantemente allungati e nell’espressione malinconica confacente alla
professione saturnina e “aristocratica” dell’artista.
Nel 1518
Biagio, il padre di Giuseppe, cominciò a lavorare per la Veneranda Fabbrica
del duomo di Milano – per vari secoli una delle più importanti
imprese artistiche della città –, e per molti
decenni realizzò cartoni per vetrate. Nel 1549 fu affiancato da
Giuseppe, il quale lavorò per quasi dieci anni per la Fabbrica,
realizzando una serie di cartoni ma anche di- pingendo stemmi, stendardi ed
eseguendo altre opere minori. Se si analizzano le numerose scene dell’Antico e
del Nuovo Testamento e delle vite dei santi disegnate dal padre e dal figlio,
si possono distinguere i movimenti più dinamici delle figure e le strutture
spaziali più audaci del giovane Arcimboldo, e il linguaggio più morbido e
misurato del padre. Nel 1556 Arcimboldo fu ingaggiato per eseguire gli
affreschi del duomo di Monza insieme a Giuseppe Meda e ad altri pittori di
minor fama e forse si può individuare il suo contributo al monumentale
affresco con l’Albero della Vita nei grossi limoni gialli o cedri, che
ricordano quelli appesi sul petto dell’Inverno.
La scuola
lombarda è considerata la culla del naturalismo, una visione artistica basata sull’osservazione
diretta della natura il cui più celebre esponente, Leonardo da Vinci,
trascorse oltre vent’anni a Milano, diciassette dei quali al servizio del duca
Ludovico Sforza detto il Moro. Lo stile di Leonardo dominò la scena artistica
ben oltre la metà del Cinquecento, dal momento che oltre ai magni ci affreschi
e dipinti il maestro lasciò anche una gran copia di manoscritti e disegni
contenenti la sua eredità intellettuale.
La grande
curiosità inventiva di Leonardo si estendeva anche alle arti decorative, un
settore che viene spesso trascurato. Nel Cinquecento gran parte dell’attività artistica
milanese riguardava in effetti il taglio delle gemme, l’oreficeria, la
gioielleria, la fabbricazione di armature, la tessitura della seta, la fusione
del bronzo e più in generale la produzione di raffinati oggetti di
lusso. Molti di questi artigiani lavoravano sulla base dei disegni forniti
loro dai pittori e dovremmo considerare la possibilità che Arcimboldo fosse
coinvolto in questo genere di attività nella prima parte della sua
carriera.
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Giuseppe Arcimboldo
Santa Caterina viene decapitata ante 1556 Pannello di vetrata / Milano, Duomo, vetrata di santa Caterina d’Alessandria |
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Giuseppe Arcimboldo
Santa Caterina viene condotta in carcere ante 1556 Pannello di vetrata / Milano, Duomo, vetrata di santa Caterina d’Alessandria |
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Giovanni Paolo Lomazzo
Autoritratto sesto decennio del XVI secolo Olio su tavola di quercia / d 39 cm Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie |
“Questo è Pittore raro, et in molte altre virtù studioso, et
eccellente; et dopo l’haver dato saggio di lui, e del suo valore, cosi nella
pittura come in diverse bizzarie, non solo nella patria, ma anco fuori,
acquistossi gran lode, di maniera, che il grido della sua fama volò sino
nell’Alemagna...".
Anche se lo
storico milanese Paolo Morigia nella sua Nobiltà di Milano celebra
l’arte di Arcimboldo con accenti tanto lusinghieri, non sappiamo ancora su
quali opere si basasse all’epoca la fama del pittore. Stando alle prove
documentarie, quando era a Milano Arcimboldo lavorava esclusivamente per la
committenza reli- giosa. Trasferitosi alla corte imperiale – prima a Vienna,
poi a Praga – dimostrò una versatilità di interessi
che gli permise di ricevere una gamma di incarichi ampia e diversificata; da ciò si deduce che
egli doveva già aver dato prova di possedere alcune di queste
qualità mentre era ancora in Italia.
La prima nota
che documenta la presenza a corte di Arcimboldo lo certifica come
ritrattista. La ritrattistica era un genere molto importante, ma anche uno
tra gli incarichi più noiosi per gli artisti di corte, specialmente quando
implicava la copia di innumerevoli effigi esistenti. Gli Asburgo attribuivano
particolare importanza a queste opere, che avevano un ruolo chiave nella loro
politica matrimoniale, in cui si dimostrarono più abili di tutte le altre
dinastie europee.
Diverse
generazioni di studiosi hanno cercato di identificare la mano di Arcimboldo in
una serie di ritratti di corte.Tra questi, la celebre copia (?) di quello che
raffigura Massimiliano II con la moglie Maria e i loro primi tre gli Anna,
Rudolf e Ernst: il primo vero ritratto di famiglia degli Asburgo, il cui
originale, a giudicare dall’età dei bambini,
doveva essere attribuito a Jacob Seisenegger. È il dipinto più strettamente
legato ai sette ritratti di arciduchesse, tre dei quali compresi in questa
mostra. A prima vista sembrano tutti così diversi per stile e tecnica rispetto
alle bizzarre e sintetiche teste composte, che non tutti gli studiosi ne hanno
accettato l’attribuzione. Eppure, il modo in cui le diverse personalità
emergono grazie ai tratti e alle espressioni fortemente individualizzate
ricorda la capacità dell’artista di trasformare le sue “vittime” in caricature
composite, soprattutto quelle legate ai mestieri. Inoltre, alcune caratteristiche
del trattamento, insieme al modo illusionistico in cui la forma viene catturata
sottolineando alcuni effetti speciali come la brillantezza dei gioielli e
l’opulenza dei tessuti, posso- no essere legati alla decisione di Arcimboldo di
rappresentare i dati visibili in modo più o meno attento a seconda della
funzione del lavoro.
Massimiliano fu
eletto imperatore nel 1564 dopo la morte del padre Ferdinando I e governò no
al 1576. Intellettuale colto e arguto, Massimiliano, che padroneggiava anche
diverse lingue, fece della sua corte un centro culturale di prim’ordine,
convocando eruditi provenienti da tutta Europa, tra cui umanisti e studiosi
come Wolfgang Lazius, Paulus Fabrizius, Jacopo Strada e Giovanni Battista
Fonteo. Particolarmente interessato alle scienze naturali, il sovrano fece
costruire giardini zoologici e botanici in varie zone della città di Viennaper
la coltivazione di nuove specie di ora e fauna provenienti dal Nuovo Mondo e
dall’Asia orientale. In questa sua passione Massimiliano si trovò a competere
con altri reggenti europei, in particolare con il cugino, il re Filippo II di
Spagna, che a quanto pare era entrato in possesso di esemplari rari già prima
di lui. Durante il suo apprendistato a Milano, Arcimboldo aveva acquisito
familiarità sia con le curiosità della natura sia con gli oggetti d’arte. Gli
Asburgo gli affidano un altro compito importante: quello di ideare e dirigere
le grandiose feste di corte.
Spettacoli e
feste in maschera costituivano una forma d’arte internazionale in voga nelle
corti europee, in cui gli artisti non si limitavano a progettare archi
trionfali e altre architetture effimere, ma ideavano giochi, balli e cortei che
vedevano la partecipazione attiva dei sovrani, delle loro famiglie e dei membri
della corte. È possibile che Arcimboldo avesse già avuto occasione di curare
alcuni aspetti di queste feste durante il suo primo periodo a Milano. Per
principi e governanti eventi del genere erano al tempo stesso un simbolo del
loro potere e un’occasione per mostrare la magnificenza delle corti. I costumi,
gli apparati e gli effetti scenici erano utilizzati per glori care la dinastia
e per legittimare e forti care le sue strutture di potere. Ogni spettacolo
faceva parte di una “liturgia di apoteosi secolare” basata su temi mitologici e
storici associati al sovrano, ma anche sul “repertorio allegorico e simbolico
dell’umanesimo”. I tornei segnarono la rinascita della cavalleria e della
tenzone, che da forma di combattimento divenne una pratica estetica.
Ciò che rimane
di queste sfarzose manifestazioni sono gli schizzi per costumi, mostri, gualdrappe
e progetti per eleganti carrozze. Oggi, dei quattro volumi di disegni che
Arcimboldo presentò all’imperatore Rodolfo II ne è noto solo uno
(Firenze, Uffizi). Queste frammentarie raccolte di disegni danno
l’impressione che Arcimboldo fosse anzitutto un creatore di meraviglie
effimere, e questo spiegherebbe il motivo per cui solo una piccola parte del
suo lavoro nei venticinque anni trascorsi al servizio degli imperatori sia
giunta no a noi. Occasionalmente, e talvolta per puro caso, emergono testimonianze
delle sue altre attività. Il disegno di una fontana indica ad esempio che
l’artista era coinvolto nella progettazione del giardino per il palazzo di
Neugebäude costruito
da Massimiliano alla periferia di Vienna, sul modello della “villa suburbana” di
Palazzo Te progettata da Giulio Romano a Mantova.
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Nicolas Neufchantel (attribuito)
L’imperatore Massimiliano II Olio su tavola / d 19,5 cm Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie |
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Martino Rota
L’imperatore Rodolfo II 1576-1580 Olio su tela / 51x42 cm Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie |
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Giuseppe Arcimboldo
Donna in costume con merletto 1585 Penna e acquerello celeste su carta bianca / Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe |
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Giuseppe Arcimboldo
Slitta con satiri 1585 Penna e acquerello celeste su carta bianca / 190x191 mm Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe |
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Giuseppe Arcimboldo
Costume per armigero 1585 Penna e acquerello celeste su carta bianca / 312x210 mm Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe |
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Giuseppe Arcimboldo
Costume per la figura allegorica della Musica 1585 Penna e acquerello celeste su carta bianca / 303x204 mm Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe |
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Giuseppe Arcimboldo (attribuito)
L’arciduchessa Anna, figlia dell’imperatore Massimiliano II 1563 circa Olio su tavola / 42,7x34,1 cm Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie |
Entro un anno
dal suo arrivo a Vienna alla ne del 1562, il pittore dipinge il ciclo
delle Quattro stagioni: L’Estate e L’Inverno sono
datati 1563. I Quattro elementi furono probabilmente ultimati
nel 1566. Entrambe le serie raffigurano busti visti di pro lo che, posti gli
uni accanto agli altri, si guardano reciprocamente e sembrano essere stati
concepiti come pendant. Sul retro della Primavera (oggi a
Madrid) si legge la seguente iscrizione risalente al XVI secolo: “LA PRIMAVERA/
VA accompagnato con L’Aria ch... una testa di uccelli”). Anche se il dipinto
appartiene forse a una serie successiva, rimane il fatto che L’Aria era
associata alle tiepide brezze primaverili, Il Fuoco al caldo
dell’estate, La Terra all’aridità dell’autunno
e L’Acqua all’umidità dell’inverno.
Fin dall’antichità, si credeva che questi quattro elementi costituissero
tutta la materia, secondo la dottrina di Empedocle. In seguito Ippocrate formulò la teoria
degli umori basati sui fluidi corporei e Galeno collegò agli elementi i
quattro temperamenti: il Sanguinicus corrisponderebbe
all’aria, il Cholericus al fuoco, il Melancholicus alla
Terra, il Phlegmaticus all’acqua. È possibile che
Arcimboldo avesse familiarità con questa
dottrina – che rimase valida nella medicina europea no all’inizio dell’era
moderna – tramite il medico e storico di corte Lazius.
Se le Stagioni di
Monaco di Baviera pre- cedono la serie di Vienna, Arcimboldo avrebbe avuto a
sua disposizione un repertorio di ori, frutti, ortaggi e simili che poté
riutilizzare almeno in parte nella seconda serie eseguita per Massimiliano alla
corte viennese. Nella Primavera sono stati individuati quasi
ottanta diverse varietà di piante in ore. Nell’insieme opulento di frutti,
ortaggi, nocciole e spighe di grano dell’Estate, l’artista include anche
rare varietà importate dal Nuovo Mondo, come il mais, che non
venne coltivato in Europa no al 1525. La firma e la data sono “intessuti” ad
arte nel mantello di paglia della figura: probabilmente un richiamo
all’allusione dell’antico autore romano Plinio il Vecchio al pittore
classico Zeusi, talmente ricco da poter scrivere il suo nome a lettere d’oro
intrecciate nella veste. L’Inverno a sua volta è concepito
come un vecchio tronco d’albero nodoso con tre funghi a formare le labbra, un
groviglio di rami intrecciati con foglie d’edera per i capelli e un ramoscello
con due agrumi che sporge dal petto. Il mantello di paglia reca decorazioni a
forma di pietre focaie, simbolo dell’ordine cavalleresco del Toson d’Oro, posto
sotto la guida degli Asburgo. La grande lettera M, parzialmente visibile sul
retro del mantello, allude a Massimiliano II, nella cui tomba è stato di
recente rinvenuto un mantello ornato da una M simile. Nell’antica Roma
l’inverno segnava l’inizio del nuovo anno e sappiamo che una volta Massimiliano
partecipò a una festa di
corte con il costume dell’Inverno.
A quanto
sembra, i Quattro elementi furono concepiti a Vienna con
l’ausilio di studi dal vivo di uccelli e altri animali in vari giardini
zoologici, come scrive Comanini. L’Aria è composta da un
folto gruppo di uccelli con speci co riferimento al repertorio allegorico
legato agli Asburgo: l’aquila sul petto e il pavone sono simboli araldici della
dinastia e tra i numerosi studi di natura presenti nel volume conservato alla
Biblioteca Nazionale di Vienna troviamo infinite specie di uccelli, comprese
tortore-quaglia dalla testa blu, cracidi dall’elmo e molti altri.
Il Fuoco –
allusione alla guerra in corso con l’impero ottomano – è coronato da
una ammeggiante capigliatura posta sopra il busto composto da un insieme di
strumenti da fuoco sormontati dal collare dell’ordine del To- son d’Oro, da cui
pende il ciondolo con l’aquila a due teste, simbolo della Casa d’Asburgo.
La Terra è costituita
da una miriade di mammiferi che s’intrecciano fra loro, studiati dall’artista
in numerosi disegni preparatori, molti dei quali sono giunti no a noi, tra
cui quelli per il cinghiale, l’alce, il cervo, il daino e l’antilope. Come nel Fuoco,
diversi particolari sono indubbi riferimenti alla Casa d’Asburgo, come le corna
ra- mificate che coronano la testa, la pelle del leone di Ercole e la pelle di
ariete che simboleggia l’ordine del Toson d’Oro. Comanini si rifà a Plinio il
Vecchio attribuendo particolari qualità a ogni animale sulla base della sua
posizione all’interno della testa.
L’Acqua è composta da
più di sessanta pesci e altri animali acquatici, la maggior parte dei quali di
origine mediterranea. La bocca formata dalle fauci aperte di uno squalo e
l’occhio appartenente a un pesce luna sono una dimostrazione dello spirito
ironico dell’artista. Anche se i riferimenti simbolici alla dinastia degli
Asburgo appaiono palesi nella serie degli Elementi, eseguita dopo
l’ascesa di Massimiliano al trono imperiale nel 1564, probabilmente Arcimboldo
si chiedeva se queste creazioni mostruose potessero essere interpretate come
caricature e causare un danno all’immagine pubblica dell’imperatore. Per
evitare questo rischio accompagnò le sue opere
con dei testi scritti. Lomazzo riferisce che il pittore stesso introdusse a
corte il giovane umanista Giovanni Battista Fonteo e lo incaricò di scrivere
un elogio con la spiegazione di tutti gli otto dipinti. Nel suo caloroso poema
di lode, oggi conservato alla Biblioteca nazionale di Vienna, Fonteo collega la
serie con l’impero asburgico, rappresentato come una potenza mondiale eterna
quanto il ciclo delle stagioni. Combinando diverse tradizioni che fa risalire a
Roma “caput mundi”, Fonteo descrive le Stagioni e gli Elementi come
allegorie politiche che attraverso l’interazione tra microcosmo e macrocosmo
alludono al dominio di Massimiliano e degli Asburgo. Inoltre, la varietà di specie
animali e vegetali che convive armoniosamente nelle teste composte di
Arcimboldo simboleggia la pace e la prosperità del regno di Massimiliano. A
quanto pare, la presentazione ufficiale dei dipinti e del panegirico, nel
giorno di Capodanno del 1569, fu un successo tale che l’imperatore inviò copie dei
quadri ai suoi parenti a Madrid e ad altri governanti per propagandare lo
splendore della sua corte e del suo regno. Ognuno di questi dipinti riunisce in
uno spazio limitato un’amplissima varietà di elementi,
selezionati e disposti all’interno di un più ampio e
ambizioso disegno. Così le opere sono legate da un lato al concetto
della Kunstkammer, dall’altro all’idea dell’universo. Come ha
affermato Julius von Schlosser, le Stagioni e gli Elementi costituivano
la decorazione ideale per una camera delle meraviglie, ed è assai probabile
che l’imperatore stesso volessevederli esposti nel proprio museo, elogiato da
Lomazzo come “degno di perpetua memoria”. I due cicli di Arcimboldo sono
stati interpretati secondo vari livelli di lettura e da angolazioni differenti.
Gli studiosi come Kaufmann vi identificano una serie di allegorie politi- che e
celebrative della Casa d’Asburgo, create per “scherzare facendo sul serio”. È il serio
ludere, un concetto familiare n dall’antichità classica,
riportato in auge da Erasmo di Rotterdam, eminente umanista molto stimato
dall’imperatore Ferdinando I, che regnava ancora al momento dell’arrivo di
Arcimboldo a Vienna.I poemi coevi ispirati alla Flora e
a Vertunno rivelano che il soggetto del dipinto è il costante
movimento dell’occhio – e dell’osservatore – tra i particolari e la struttura
complessiva, tra due diversi enunciati, fra unità e molteplicità, e la
metamorfosi che ne consegue. L’invenzione di queste teste, ispirate a
un’estetica paradossale, potrebbe quindi essere frutto di mero virtuosismo, di
una predilezione per la confusione giocosa e l’instabilità dei valori che
caratterizzava l’arte tardo rinascimentale. Libri quali Die Welt als
Labyrinth di Gustav Hocke hanno ripetutamente sottolineato la
predilezione dei cosiddetti manieristi per i “concetti” e gli “artifici”
intellettuali, il piacere autoreferenziale dell’eccesso, della deformazione,
dell’anamorfosi, di geroglifici e codici se- greti, l’ossessione per la
mostruosità e il paradosso che sfugge brillantemente a ogni
tentativo di decodificazione. Tutto questo perché il gioco, lo scherzo,
costituiva il tema centrale? In ogni caso, sembra che il reale intento degli
“scherzi seri” di Arcimboldo non fosse tanto quello di investire le
invenzioni formali di significati allegorici o dotti riferimenti a Plinio il
Vecchio e ad altri autori antichi o di conferire dignità morale a espressioni
apparentemente frivole, quanto di suscitare l’attenzione e guidare lo sguardo
dell’osservatore dalla forma della figura nel suo complesso ai particolari,
frutto di scoperta scientifica, che l’artista rende con estrema accuratezza.
Arcimboldo riesce così a creare un nuovo tipo di rapporto tra microcosmo e
macrocosmo, collocando entrambi nella parte più nobile del
corpo umano: la testa. Una serie di stampe e dipinti di artisti prevalentemente
nordici ci permette di seguire l’affascinante evoluzione delle teste di
Arcimboldo che si trasformano in paesaggio antropomorfo.
Nel
1576 quando salì al trono Rodolfo II, il figlio maggiore di Massimiliano,
Arcimboldo fu riconfermato pittore di corte e seguì il sovrano a Praga,
la nuova capitale, che presto divenne il centro culturale dell’impero,
attirando artisti, filosofi, scienziati e matematici provenienti da tutta
Europa. Rodolfo ampliò la gamma di interessi
del padre e del nonno, che avevano interessi più verso fenomeni terrestri
(ovvero piante e animali). Appassionato studioso di astronomia, rivolse la sua
attenzione al funzionamento dell’universo, al sistema planetario, e chiamò a corte i più importanti scienziati dell’epoca, come
Tycho Brahe e Johannes von Kepler (Giovanni Keplero). Convocò anche alcuni specialisti per sviluppare
nuovi strumenti scienti ci e tecniche di fabbricazione. Il fecondo scambio tra
arte e scienza che caratterizzava la corte di Praga diede ad Arcimboldo la
possibilità di dedicarsi a una versatile attività nel campo dell’ingegneria
(come l’invenzione di macchine per guadare l’acqua senza far uso di ponti e
cose simili) e della crittografia, di inventare il liuto prospettico e il
clavicembalo a colori descritti da Lomazzo. Rodolfo lo consultava anche come
esperto di oggetti naturali e di arte antica e probabilmente gli affidò la
direzione dei festeggiamenti in occasione del conferimento dell’ordine del
Toson d’Oro a lui e ai suoi fratelli minori nel 1585. È possibile che lo abbia
incoraggiato anche a replicare alcune delle sue famose invenzioni antropomorfe
da donare ai governanti più legati alla monarchia. Arcimboldo veniva
consultato anche da altri membri della corte.
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Giuseppe Arcimboldo
L’Estate 1555-1560 circa Olio su tela / 68,1x56,5 cm Monaco di Baviera, Bayerische Staatsgemäldesammlungen |
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Giuseppe Arcimboldo
La Primavera
1555 - 1560 circa
Olio su tavola 68x56,5 cm
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Giuseppe Arcimboldo
L’Inverno 1563 Olio su legno di tiglio / 66,6x50,5 cm Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie |
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Giuseppe Arcimboldo
L’Autunno 1572 Olio su tela / 91,4x70,2 cm Denver, Denver Art Museum, lascito di John Hardy Jones |
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Giuseppe Arcimboldo
Il Fuoco
Post 1566
Olio su tela 74x55,5 cm
Svizzera, collezione privata.
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Giuseppe Arcimboldo
La Terra 1566 (?) Olio su tavola / 70,2x48,7 cm Vienna, Lichtenstein - The Princely Collections |
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Giuseppe Arcimboldo
L’Acqua 1566 Olio su legno di ontano / 66,5x50,5 cm Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie |
Per
bizzarra ideazione una ‘testa composta’ di Giuseppe Arcimboldo non può non stupire, e forse talvolta
‘disturbare’, l’osservatore attratto dall’assembramento di oggetti anomali e
incongrui – carte, libri, manufatti, strumenti – oppure animali, ori, frutti,
arbusti. La maggior parte di questi eccentrici ‘ritratti’ colti di pro lo e
ricchi di significati simbolici, molti dei quali raffiguranti le Stagioni e
i quattro Elementi, è infatti realizzata tramite una capricciosa
concentrazione di reperti desunti dalla botanica come dall’orticoltura, dalla
zoologia come dalla malacologia. Arcimboldo, che aveva avuto modo di
confrontare e mettere alla prova l’innata inclinazione per il mondo della
natura già nell’ambiente milanese,
si era trovato immerso in un vero e proprio fervore di studi anche presso la
corte degli Asburgo, come in tante altre di sovrani e principi europei, la
curiosità per i multiformi e spesso stravaganti aspetti della realtà naturale
incentivò ulteriormente nel corso del secolo XVI il fenomeno del
collezionismo. Quelle che si vennero formando o arricchendo furono per lo
più collezioni di tipo enciclopedico, nelle quali trovavano posto sia i
prodotti della mano dell’uomo (artificialia), sia quelli della natura (naturalia)
e che nell’Europa centrale vennero significativamente denominate Kunst-
und Wunderkammern (Camere d’arte e di meraviglie): quadri,
sculture, monete, antichità, orologi, strumenti scientifici e meccanici,
automi, armi, reperti etnografici, si mescolavano dunque con animali, piante e
minerali, costituendo nell’insieme un tentativo di riprodurre, in una o poche
stanze, l’intero mondo. Inoltre le preferenze dei collezionisti andavano
regolarmente ai pezzi che erano strani, mostruosi, fuori dalla norma, pezzi che
potevano stupire, per esempio, o per la loro preziosità, o per la raffinatezza
della loro esecuzione o perché provenienti da mondi lontani nel tempo
(antichità) o nello spazio (reperti naturalistici esotici). Particolarmente
apprezzati e ricercati erano poi gli oggetti nei quali l’arte e la natura
parevano fondersi e gareggiare: uova di struzzo, conchiglie, rami di
corallo, corna di animali montati in oro, pietre preziose e altri materiali di
pregio. “Amava solo ciò che era straordinario e
miracoloso” osservava Maria di Stiria a proposito di Rodolfo II, i cui gusti
dovevano essere ben noti anche al duca italiano Carlo Emanuele I di Savoia,
data la tipologia degli oggetti che quest’ultimo inviò in dono all’imperatore: due quadri di
natura morta (uno raf gurante una pescheria, l’altro frutta), “un pugnale
Indiano con fodera di bosco, il manico di corno di bada gioielato di rubini,
una nave d’argento grande, che nel corpo aveva una mezza noce d’India, grande
più della testa di un homo, tre grandi pietre
bezar”.Queste “Camere delle meraviglie” non rappresentavano frutti del
capriccio di principi più o meno malinconici o
annoiati: come spesso dimostra anche la presenza accanto a esse di una
biblioteca, costituivano degli strumenti per approdare a una conoscenza universale.
I quadri delle teste di Arcimboldo erano oggetti quanto mai consoni alla ‘ loso
a’ delle Wunderkammern: non solo in quanto genericamente
“ghiribizzosi, e rari al mondo”, ma anche perché i
soggetti naturalistici resi abilmente e realisticamente, cioè “cavati dal
naturale”, dal pittore, li rendeva, in fondo, amalgami di arte e natura e in ne
compendi in spazio ridotto di realtà
ampie e diversificate (la ora, la fauna acquatica e quella terrestre).
Anche
gli esseri umani, se presentavano qualche anomalia o mostruosità che li
rendeva creature di con ne partecipanti in qualche misura anche del regno
animale, potevano diventare oggetti da collezione, quanto mai in grado di
suscitare meraviglia e conferire prestigio ai loro ‘proprietari’. Numerosi erano,
per esempio, i nani che popolavano le corti europee e addirittura morbosa era
la passione mostrata verso di essi dai Gonzaga di Mantova sin dai tempi di
Isabella d’Este, che si era fortemente impegnata a dar vita a una “raza delli
miei nanini”. Fin dall’età
dell’Umanesimo, con la riscoperta e lo studio di testi classici e con
l’affermarsi di una visione più
mondana della realtà, ferveva in tutta
Europa un dilagante interesse per il mondo della natura, il cui panorama
risultava enormemente ampliato a seguito delle scoperte geografiche che avevano
svelato l’esistenza di molte specie animali e vegetali del tutto ignote e che
era necessario analizzare e documentare a livello visivo. Così, nei primi decenni del Cinquecento, anche
sulla scorta dell’opera di Leonardo e di Dürer,
si era venuta affermando l’illustrazione scientifica, frutto consapevole di
quel ‘rinascimento’ delle scienze basato sull’esperienza e su un nuovo modo di
indagare il cosmo, la natura e l’uomo. Non a caso nel 1542 aveva visto la luce De
Historia Stirpium del botanico tedesco Leonhart Fuchs, seguito un anno
dopo da De Revolutionibus Orbium Coelestium di Nicola
Copernico sull’astronomia e da De Humani Corporis Fabrica di
Andrea Vesalio, dedicato all’anatomia. Il rivoluzionario strumento della
stampa consentiva la diffusione veloce e ad ampio raggio delle idee e un
confronto tra gli studiosi. Centri privilegiati di studi botanici e di
produzione di immagini furono gli orti botanici che, intorno alla metà del
Cinquecento, vennero istituiti in tutta Europa. A Bologna spettò al grande
medico e naturalista Ulisse Aldrovandi concepirne e farne costruire uno ricco
di piante rare nel 1568. Pur se in modo indiretto, anche il già ricordato
scienziato bolognese Aldrovandi (1522-1605) poté́ usufruire dell’opera di
ritrattista di “cose di natura” di Arcimboldo. Non potendo andare a esaminare
direttamente tutta la realtà
naturale, che, tra l’altro, in seguito alle scoperte geografiche, si arricchiva
quasi ogni giorno di nuove specie, Aldrovandi, per condurre le proprie
ricerche, s’impegnò per vari decenni in
quella che possiamo definire una grandiosa impresa di ‘trasferimento’ dei tre
regni della natura, anche e soprattutto di quelli delle terre più lontane, all’interno del suo studio e
della sua intera abitazione. Con libera e bizzarra inventiva, del tutto
inedita ai suoi tempi, Arcimboldo si valse dunque delle sue conoscenze
naturalistiche nelle fortunate ‘teste composte’, della serie delle Stagioni,
forse concepite in ambiente milanese prima dell’arrivo alla corte asburgica, e
quindi nelle svariate repliche successiva- mente prodotte per i suoi augusti
committenti. Quasi memore della variegata e confusa congerie dei reperti
conservati nelle coeve Wunderkammern, l’artista costruiva così L’Inverno con un fitto
groviglio di rami secchi, di radici contorte, di intirizzite foglie di edera,
di funghi lignicoli, mentre sul petto del personaggio risaltano due agrumi
dalle tattili rotondità. La figura della Primavera emerge da
un groviglio lussureggiante di ben ottantuno tra ori, foglie, piante di
provenienza europea, asiatica e americana, eseguiti con tale aderenza al dato
naturale da essere tutti identificabili sotto il pro lo botanico. Non mancano
guizzi di sottile ironia, come l’aquilegia che, con elegante nonchalance,
pende a mo’ di orecchino da una peonia allusiva dell’orecchio. Un tripudio di
frutti e ortaggi contribuiscono alla figura dell’Estate, dove l’orecchio
è suggerito da una pannocchia dell’esotico
mais, mentre una zucca mima perfettamente il muscolo sternocleidomaistoideo, e
i baccelli alludono alla forma dei muscoli diagastrico e stiloiodeo,
denunciando precise conoscenze anatomiche. L’Autunno in ne è
anch’esso costruito con un estroso abbinamento di frutti, ortaggi, radici,
cereali che si mescolano con sorprendente maestria no a suggerire una pacata ma
ancor florida figura barbuta.
Accostamenti
ancor più estrosi desunti dal mondo natura- le caratterizzano anche i dipinti
degli Elementi, nei quali ricorrono numerose le allusioni al potere
imperiale. Un groviglio di ben sessantuno organismi marini e di acqua dolce
confusamente intrecciati formano la figura dell’Acqua. Coronata da un
rosso corallo, l’amorfa creatura, che sembra trasudare umidità per i viscidi esseri che la compongono,
sfoggia una collana di perle traslucide, mentre un’altra grossa perla oblunga
pende da un ‘orecchio-conchiglia’. La figura della Terra è
costruita invece con decine di mammiferi (per lo più ungulati e felini) che
rimandano alle immagini dei singoli animali ritratti dallo stesso Arcimboldo,
ancora oggi conservate nei codici imperiali. Anche L’Aria, giunta
no a noi in una modesta replica non autografa che offre solo una lontana idea
dell’affascinante complessità
dell’originale, è formata da decine di
volatili, tra i quali dominano i simboli imperiali dell’aquila e del pavone.
Negli Elementi l’artista
ebbe modo dunque di riprodurre in estrose combinazioni i molti animali che
aveva avuto modo di osservare nelle voliere, nelle gabbie, nei bacini e fontane
imperiali, ma che doveva aver anche studiato attentamente nei testi zoologici
contemporanei, come la citata Historia Ani- malium di Gessner.
Fa parte della sala delle Wunderkammer anche la famiglia Gonzales
caratterizzata dall'avere il corpo completamente ricoperto di peli. Pedro
Gonzales fu il primo della famiglia ad andare via dalle Canarie e, per motivi
ignoti, era arrivato alla corte francese e dopo aver ricevuto educazione e
nobiltà sposò
una bellissima donna di nome Catherine. Molti dei figli ereditarono questa
caratteristica e diventarono anch'essi visitatori di corte di tutta Europa,
compresa l'Italia, dove furono curiosità
scientifica anche per Ulisse Aldrovandi. Nella mostra, i ritratti della
famiglia Gonzales, vengono paragonate alle opere di Arcimboldo. Se la
famiglia Gonzalez rappresentava i capricci della natura come curiosità
viventi, le teste composte di Arcimboldo erano curiosità artistiche che si
servivano della natura per dipingere meraviglie.
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Lavinia Fontana
Ritratto di Antonietta Gonzalez 1595 circa Olio su tela / 57x46 cm Musée du Chateau de Blois |
Per teste ‘composte’, allora definite come ‘bizzarrie’, ‘ghiribizzi’, ‘scherzi’, ‘grilli’, cioè stranezze insolite, si devono intendere quei busti che a un primo sguardo appaiono del tutto naturali, ma che in realtà sono costruiti attraverso il sapiente incastro logico di forme diverse, naturali o artificiali. Le teste ‘reversibili’ dell’Arcimboldo sono quindi immagini naturalistiche di raffinata ambiguità visiva che, ruotate di 180 gradi, assumono una conformazione del tutto diversa. Per l’osservatore il divertimento e il riso sono assicurati: egli vede la prima immagine come un contenitore di elementi naturali (cioè, noi diremmo, come una vera e propria natura morta) e quindi non si aspetta che il quadro celi, attraverso la rotazione, un divertente faccione burlesco assemblato con gli elementi della precedente immagine. L’abilità dell’Arcimboldo sta proprio nel riuscir a far sovrapporre e coincidere con sapienza due immagini naturalistiche completamente diverse tra loro in modo che ciascuna, nel contraddire l’apparenza della realtà, sia anche il nascondi- mento dell’altra.
Un
esempio precoce di tale divertimento ‘reversibile’, sicuramente riferibile
all’Arcimboldo, ma purtroppo ora disperso, è descritto da un nobile in visita
nel 1573 nella “camera” di Vienna di Massimiliano II. Egli vide un vaso ricolmo
di fiori mirabili il quale, però,
una volta voltato “al rovescio” “mostrava una faccia incredibilmente ridicola”.
Dovrebbe risalire a quegli anni anche la testa ‘reversibile’ attribuita
all’Arcimboldo raffigurante il cosiddetto Cuoco. Su un piatto
metallico sono disposti alcuni arrosti mentre due mani coprono (o scoprono) con
un altro piatto il prelibato cibo. Ma se la tavola viene capovolta appare il
profilo di un uomo con copricapo (un cuoco?) assemblato con diverse carni
abbrustolite come quella di un maialino da latte. In particolare, la
testina di un volatile arrosto dà forma all’occhio e il suo corpo simula il
naso adunco, mentre altre carni riproducono una bocca che sembra sghignazzare
come in una testa grottesca di Leonardo. E tale riferimento ai volti caricati
leonardeschi è rintracciabile anche nel viso legnoso della sua più
tarda Testa delle quattro stagioni dell’anno. Un’altra testa
‘reversibile’ eseguita però
dall’Arcimboldo nel suo ultimo periodo milanese è
quella ora conosciuta come L’Ortolano. Questa tavola andrebbe però
più correttamente interpretata come la raffigurazione del faccione ghignante e
rubicondo di Priapo, il dio custode degli orti e della fertilità.
Possiamo appunto vedere inizialmente questo dipinto come una vera e propria
natura morta, cioè come una bacinella metallica riempita con prodotti naturali
che si staglia su una base indistinta. Tale indefinitezza è necessaria in
tutte le teste reversibili affinché, nel ribaltamento, il piano diventi, senza
interferenze, lo sfondo neutro della nuova strampalata immagine
antropomorfo-naturalistica. Infatti quando il quadro viene rovesciato tutto sembra
magicamente cambiare. Il contenitore diventa il cappellaccio di una sorta di
spaventapasseri priapeo il cui mascherone grottesco è incorniciato da foglie
di insalata verde. Una nespola e una noce aperta simulano gli occhi furbeschi,
un ravano bianco diventa il lungo nasone fallico, due funghi ricreano i
labbroni rossi e così via con altre raffinatezze visive. Il legame
dell’Arcimboldo con la nascita della natura morta è dunque del tutto evidente.
Tra
gli artisti che in qualche modo hanno potuto assorbire il
procedimento naturalistico dell’Arcimboldo troviamo anche un altro geniale
pittore lombardo: il Caravaggio. Sappiamo con certezza che negli ultimi anni
milanesi dell’Arcimboldo, tra il 1587 e il 1593, cioè nel periodo in cui egli era intento a
dipingere per Rodolfo II le citate tavole con la Flora e
il Vertunno, a pochi passi dalla bottega arcimboldesca il
Caravaggio stava concludendo la sua formazione artistica presso il maestro
Simone Peterzano e stava iniziando la sua straordinaria carriera pittorica.
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Giuseppe Arcimboldo
L’Ortolano (Priapo) / Ciotola di verdure 1590-1593 circa Olio su tavola / 35,8x24,2 cm Cremona, Museo Civico “Ala Ponzone” |
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Giuseppe Arcimboldo
Il Cuoco / Piatto di arrosto Olio su tavola / 52,5x41 cm Stoccolma, Nationalmuseum |
Arcimboldo aveva certamente familiarità con la tradizione delle teste grottesche di Leonardo. A parte l’autoritratto di Arcimboldo composto di fogli di carta – che pure possiamo definire una forma di autocaricatura – non ci sono disegni di sua mano che possono essere collegati a questo genere grottesco. Il Bibliotecario conservato nel castello di Skokloster – con le pagine di un libro aperto al posto dei capelli, la barba formata da piumini da spolvero, due chiavi per gli occhi e segnalibri al posto delle dita – ha più probabilità di essere una caricatura, perché n dall’inizio l’effigiato è stato identificato in una persona reale: il famoso medico e storico di corte Wolfgang Lazius. È stato ipotizzato che in quest’opera Arcimboldo volesse prendersi gioco della produzione storico-letteraria di Lazius che comprendeva oltre cinquanta volumi, celebri più per la quantità che per la qualità. Con la sua fusione tra mestieri e personalità individuale, questa immagine, a differenza delle altre “teste composte”, soddisfa tutti i requisiti della caricatura. Il dipinto ebbe una fortuna tale che le collezioni svedesi ne comprendevano quattro versioni / copie. Mentre questo ritratto è caratterizzato da una certa leggerezza di spirito, nel Giurista (o L’Avvocato) – una gura che ha il viso formato da un pollo arrostito, un pulcino spennato al posto del naso e degli occhi, la bocca di un pesce e la coda di un pesce al posto del mento – il senso dell’umorismo si è tramutato in spietato sarcasmo, al punto che sia Lomazzo sia Comanini ne rimasero colpiti27. Lomazzo riferisce che l’imperatore e i cortigiani trovavano che, osservandolo da lontano, il ritratto non poteva somigliare di più al vice cancelliere Ulrich Zasius e solo avvicinandosi si rendevano conto che il volto era composto in realtà di uccelli e altri animali. Il commento più dotto e preciso si trova nel celebre dialogo di Gregorio Co- manini del 1591: “[...] fu ridicolosissimo quel ritratto, che per comandamento dell’Imperadore Massimigliano egli fece d’un certo Dottore, a cui tutto il volto era guasto dal mal francese, & pochi peluzzi al mento erano rimasti. D’animali & di varij pesci arrostiti lo finse tutto; & in guisa gli riuscì, che chiunque lo rimirava, subitamente accorgeasi, quella essere la vera effigie del buon Legista”. Forse il ritratto del vicecancelliere allude a pratiche legali non proprio trasparenti oppure all’ingordigia – anche se Zasius poteva effettivamente avere il volto sfigurato a causa di una caduta da carrozza. Ma i motivi per cui il vicecancelliere era divenuto il bersaglio dell’ironia dei cortigiani e il soggetto di una caricatura tanto sgradevole possono anche essere altri. Secondo alcuni l’effigiato si era fatto dei nemici quando aveva impedito all’imperatore – cattolico, ma di ampie vedute – di acquistare libri protestanti. In ogni caso, il quadro ebbe il plauso di Rodolfo, tanto che Comanini scrive: “Del piacere che quella Maestà se ne prese e delle risa che se ne fecero per l’Imperial Corte non occorre che io il vi dica. Potete imaginarlovi da voi stessi”.
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Giuseppe Arcimboldo (copia da)
Il Bibliotecario Olio su tela / 97x71 cm Svezia, Castello di Skokloster |
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Giuseppe Arcimboldo
Il Giurista 1566 Olio su tela / 64x51 cm Stoccolma, Nationalmuseum |
Ferino-Pagden Sylvia, Arcimboldo, catalogo della mostra, Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma, Palazzo Barberini, 20 ottobre 2017-11 febbraio 2018, ed. Skira, Milano, ottobre 2017.
di Emanuela Muccigrosso
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